L’INTELLIGENZA DELL’IMPOSSIBILE. Intervista a Johnny Dotti

giovedì, giugno 04, 2020
"E’ tutto da rifare”. Ragazzi e scuola, senso di comunità, cooperazione sociale, ma anche gestione del dolore e bisogno di verità: in un’intervista senza filtri con Sguardi Resilienti l’imprenditore e agitatore sociale Johnny Dotti traccia possibili vie d’uscita dall’urto del coronavirus sulle nostre vite


Foto Greg Rakozy - Unsplash















“Parlo da un paesino della Val Seriana, in provincia di Bergamo. Marzo e aprile 2020 sono stati mesi drammatici qui più che altrove, praticamente ogni famiglia ha perso qualcuno, a fine maggio contiamo almeno 10mila morti nella bergamasca”. Partiamo da questo, nell’intervistare Johnny Dotti, figura di riferimento nazionale e non solo nell’ambito della cooperazione sociale, già presidente del Consorzio CGM e oggi amministratore delegato di On impresa sociale e docente universitario. Anche sua moglie è stata colpita duramente dal virus ma con il ieto fine della guarigione, assistita anche dai suoi figli e dalla comunità di famiglie in cui i Dotti vivono. L’incontro con Johnny, trasmesso in diretta sul web, ha avuto numeri molto alti in termini di partecipazione. La sua è una figura competente e “di rottura”, che porta a pensare fuori dagli schemi e può apportare forti stimoli ai nostri modi di ragionare. Di seguito pubblichiamo un profondo estratto, mentre trovate a questo link il video dell’intervista, realizzata da Daniele Biella, coordinatore di Sguardi Resilienti, il blog crossmediale di Aeris Cooperativa Sociale.



Con la pandemia le nostre vite sono cambiate e siamo di fronte a un momento storico importante. Come stiamo?
C’è l’evidenza della morte, che la nostra società dei consumi ha rimosso quasi come un accidente causale che capita ad altri, ma invece vissuto è una condizione della vita. C’è poi l’immobilità: non potersi muovere ci ha fatto rimettere l’occhio sulle cose e relazioni vicine: questo comporta scoperte gioiose ma anche dolore perché la vita affannata ti fa scappare dai problemi, l’immobilità no. C’è poi una terza questione: la solitudine. Che anche in questo caso il sistema non vuole e ti spinge a stare sempre dentro la folla, mentre essere capaci di gestire la solitudine è fondamentale. Queste tre condizioni della vita non devono essere rimosse ma affrontate. Cosa ci stanno dicendo? Che alla fine della pandemia possiamo aggiustare la ruota e ripartire come prima? No. Per quanto mi riguarda, non ne ho alcuna intenzione.

Oggi la paura è ancora tanta. Dobbiamo guardare avanti, uno dei tuoi motti è “generare speranza”. Oggi per non essere succubi di paure e incertezze quali nuovi paradigmi possiamo ricercare, al di là di mascherine e distanziamento?
Per fare azioni e pensieri generativi non bisogna sfuggire da quello che ci sta dicendo questo tempo. Ricordo che siamo alla quarta crisi gigante negli ultimi 20 anni - in Occidente, dove comunque siamo dei privilegiati, perché se mi metto nei panni dei poveri della Terra, noi abbiamo vissuto negli ultimi mesi quello che loro vivono tutto il giorno per decenni – e se mettiamo a fuoco il momento capiamo che dobbiamo essere provocati nell’immaginare nuove forme dell’abitare: non solo casa nostra, l’abitare i servizi! Siamo certi che fosse giusto quello che facevamo prima, ovvero l’inscatolamento in servizi iperspecialistici,  la divisionedelle persone a seconda di tipologie, patologie, età, etnie? No. In fondo la socialità è convivialità, desiderio di riconoscere nell’altro qualcosa che mi riguarda, e non è l’inscatolamento dell’altro in servizi “per”: per i disabili, per  i minori, gli anziani, gli immigrati e via dicendo. Gli anziani, per esempio: qui nella bergamasca per il virus c’è stata ecatombe in Rsa e case di riposo: siamo certi che la parte finale della nostra vita è qualcosa da mettere in posti separati da noi? Abbiamo fatto tante battaglie contro gli ospedali psichiatrici, io vorrei tanto che le cooperative sociali cominciassero a combattere anche su questo.

Hai scritto di quanto sta accadendo anche in un libro appena uscito, “La vita dentro la morte” (EMI). Molti di noi hanno perso parenti, amici, conoscenti. Ma in altre zone l’impatto è stato molto meno pesante: si sta creando una spaccatura di due Italie che hanno vissuto cose completamente diverse e quindi porteranno un vissuto differente. Come conciliare le loro narrazioni?
Ho casa a Mazara del Vallo: ho amici siciliani che tuttora non credono a quello che è successo a Bergamo. E io sono loro amico. Sì, il vissuto può essere radicalmente diverso e dobbiamo riuscire a narrare quanto accaduto: ma non con frasi del tipo “ce la faremo” piuttosto raccontando il proprio dolore, la sensazione di esserci persi… pensavamo di stare dentro un sistema tecnico e medico che ci avrebbe salvato, invece non ha salvato nessuno. Si può e si deve raccontare la buona volontà del personale sanitario che ha preso a cuore e accompagnato alla morte tuo padre, madre, amico senza potere fare niente, questo sì. Qui c’è bisogno di verità: dirsi la verità richiede immediatamente trasformazione, dopo averla ascoltata non si può più far finta di niente! In “La vita dentro la morte” parlo della nostra fragilità e della speranza che dobbiamo avere oggi, non domani. La speranza del domani è posticcia, proietta illusioni.


Davanti a noi le cose cambiano giorno dopo giorno, e con esse le regole che ci vengono imposte: come dobbiamo comportarci in rapporto a esse?
Siamo certi che seguendo solo regole delle istituzioni corrispondiamo la nostra obbligazione morale? Faccio un esempio sempre riguardo alla cooperazione sociale: con i servizi per i disabili come centri diurni o comunità ancora chiuse, nessuno si prende la responsabilità per quanto riguarda la loro riapertura (l'intervista è stata effettuata il 19 maggio 2020, ndr). Capisco bene la difficoltà, faccio l’imprenditore sociale, ma bisogna avere il coraggio di denunciare le cose, con attenzione e scaltrezza.  La cooperazione sociale deve perseguire l’interesse generale, che non è il regolamento di un assessorato o una procedura, è il sentimento di una comunità. Ci sono le regole morali  che, come diceva Simone Weil, devono emergere oltre alle regole delle istituzioni. Lì sta il principio dell’innovazione: sono sicuro che se le persone che lavorano nel sociale avranno questo coraggio, troveranno compagnia negli altri e nasceranno cose molto belle e molto più avanzate di oggi. Non solo per i bisognosi, per tutti. Altrimenti regrediremo: da una parte per forza di cose con una regressione statalista, dall’altra con un controllo tecnologico enorme.

 Hai citato il ruolo del Terzo Settore, un settore che soffre della “sindrome della matrioska”: alla cooperazione sociale ci arrivi quando ti imbatti in una situazione particolare, per esempio il figlio che ha bisogno di attenzione particolare a scuola e viene seguito dall’educatore e capisci solo allora che l’educatore non è l’insegnante di sostegno, e via dicendo. Come si può ripartire in modo diverso, dato che oggi il lavoro del mondo non profit è pesantemente colpito dal virus ma paradossalmente è un settore chiave, perché più vicino alle persone e tramite tra loro e gli enti locali, la scuola e altre istituzioni?
Io credo che il Terzo settore debba uscire dallo specialismo. Ovvero lo specialismo degli “sfigati”: siccome gli sfigati non contano, allora il Terzo settore non conta. Tra l’altro la maggior parte dei soldi viene da un ente pubblico, e negli ultimi 35 anni c’è stato un totale decadimento della politica, ovvero tutti i soldi per la cooperazione sono legati a un consenso di natura politica. Oppure sono transazioni di mercato rispetto a dei fornitori, e l’ente non profit fa la gara al massimo ribasso e mi muovo solo in modo funzionale all’obiettivo specifico: ma il Terzo settore  deve uscire da funzionalismo e specialismo, è un soggetto che esiste nella comunità, per la comunità e con la comunità. Esempio concreto: con le famiglie di disabili bisogna parlare dei loro risparmi, perché noi ci troveremo nei prossimi 20 anni con 150mila disabili senza famiglia: questo problema non si risolve con i servizi ma con il capitale, con le relazioni comunitarie, con nuove forme dell’abitare e nuove alleanze. Allora la cooperativa sociale è capace di convocare la comunità, le famiglie, le imprese e a parlare con loro della fragilità di tutti? Non solo quella dell’ASL, dei SERT, dei bambini certificati, delle sfortune: il coronavirus ce lo fa vedere, siamo tutti fragili, ognuno la esprime in modo particolare ma lo siamo tutti. Dobbiamo muoverci noi, non aspettare le leggi, da lì non può venire il nuovo, è più facile che venga da un’app il nuovo. Il problema è che se non sai controllare la app poi la app controlla te: magari con una app sarai in grado di controllare il catetere di una persona anziana ma per conto di una multinazionale americana che magari non vedi e che ha un’assicurazione privata con quell’anziano lì. È evidente che c’è un problema politico - non partitico - grande come una casa.

A questo si aggiunge il fatto che una rivendicazione del Terzo settore spesso viene vista come “cosa vogliono di più? Loro sono non profit”. Cosa bisogna fare o chiedere per cambiare rotta?
C’è un problema di visione: nel Terzo settore abbiamo tantissima buona volontà ma siamo tanti magut (muratori, ndr), operai che è una bella cosa ma il rischio è di fare sottoproletariato del 21esimo secolo, con entrate mensili tra 800 e 1200 euro dove vai? Serve un’azione politica su cui costruire alleanze, con artigiani, imprenditori, banche, non solo con gli assessorati ai servizi sociali. Con un “campo di gioco” che non è solo quello del welfare ma è soprattutto quello dei beni comuni: scuola, welfare, sanità, cultura, ambiente e web sono alcuni di questi. Non siamo più nel campo novecentesco in cui c’è il volontariato da una parte e il professionismo dall'altro. Altrimenti nella società della tecnica saremo derubricati a semplici fornitori, ora dell’ente pubblico, tra 7-8 anni delle assicurazioni, come in parte lo fai già delle piattaforme di welfare aziendale. Non abbiamo fatto 40 anni di lavoro per fare solo i fornitori, ora dell’ente pubblico e magari tra 7-8 anni delle assicurazioni. Il nostro scopo è rendere la società migliore. Un altro esempio concreto: nel lavoro di accoglienza migranti, le procedure classiche erano quelle di stipare 300 persone in un centro come conigli dentro una mangiatoia. Se tutti facessero solo le procedure, avremmo solo una schifezza totale. Qualcuno ha cominciato a dire “possiamo farli ospitare dalle famiglie”, “possiamo fare imparare loro un lavoro” e le cose sono cambiate anche se troppo pochi hanno fatto così. Bisogna trasgredire: chi ha cambiato la scoietà è sempre andato in galera, del resto. Gandhi, Mandela, De Gasperi, Pertini, Gramsci, sono andati tutti in galera, possibile che noi del Terzo settore non ci andiamo? Vuol dire che non stiamo facendo abbastanza, siamo tutti schiacciati sul sistema. Io vorrei un Terzo Settore che osa di più perché spera di più, non ha paura di fare una piccola cosa pur avendone in mente una grande, perché in quella piccola cosa è contenuto il mondo, lì c’è il seme del nuovo. Poi facciamo i conti con gli standard, con il rapporto educatori-utenti uno a tre, con la finestra del bagno di 33 centimetri se no ti fanno chiudere. Quante denunce, per esempio, prendo ancora io stesso perché faccio lavorare i 14 enni? Ma io sono convinto di farli lavorare, perché lavoro con loro, non solo i Neet, anche quelli che fanno il classico.  Risistemano le panchine, rimettono in sesto un campo di cocomeri oppure le radio, lavorando con un anziano che era un bravo elettrotecnico. Ognuno trasgredisca dove vuole, ma senza trasgressione non ci sarà cambiamento.

A proposito di scuola, quale futuro intravedi?
Riapriamo gli edifici con gli spazi di prima? L’educare è una cosa specialistica o questo tempo ci ha detto che è un’arte umana in cui siamo tutti competenti ognuno a suo modo? Porto l’esempio dei miei figli: in questi tre mesi, non vedere i nonni, prendersi cura della mamma malata quando è stata a lungo a letto con il virus, preparare legna per l’anno prossimo, insegnare italiano a Ibrahim che abbiamo accolto in casa, tutto questo può valere come quattro esami di greco… riapriamo come prima? O invece speriamo, e abbiamo fede nel cambiamento? In ogni situazione l’impossibile ci riguarda. Se non riapriamo con gli insegnanti spazi di alleanza che vanno oltre le lezioni e i dispositivi del Miur, la scuola rimarrà una cosa tristissima. Perché non si può fare scuola camminando? I più grandi insegnanti come Socrate, Aristotele, Platone, San Francesco, San Domenico, camminavano, si può camminare a gruppi un po’ più piccoli. Ci si può fidare, in modo diverso tra loro, dei ragazzi di 10 anni come di quelli di 6. Si può immaginare che quelli delle medie abbiano già una alta capacità di autonomia perché in terza media hanno già la maturità sessuale e possono fare un figlio? Sì, non trattiamoli come deficienti. Si può immaginare che le aule nel giro di 10 anni scompariranno? Le aule scolastiche sono figlie dell’800, quando i bambini non avevano la casa, avevano freddo, camminavano 12-13 chilometri per andare a scuola: allora sedersi dietro a un banco aveva un senso, oggi no, perché i ragazzi hanno esattamente il problema di fare esperienza del loro corpo, perché stanno prevalentemente in macchina. Ora la scuola dovrebbe essere fatta soprattutto in spazi aperti, in spazi dove uno mette al lavoro il proprio corpo e impara attraverso esso. Abbiamo problemi di obesità, di anoressia, di bulimia, depressione, nell'adolescenza, possibile che quelle cose non ci parlino? La cooperazione, le cooperative devono cominciare a osare. Osare qualche esperienza alternativa, rimanendo dentro al sistema ma senza identificarsi: la cooperazione sociale è nata per generare esperienze istituenti. Con tanti presidi si stanno già facendo esperienze innovative, sia nelle scuole pubbliche che nelle paritarie. Serve l’intelligenza dell’impossibile, la chiamo così, l’intelligenza dello spirito. D'altronde il Terzo settore senza l’obiezione di coscienza al servizio militare non sarebbe nato, è chiaro. Dagli anni ‘70 ai ‘90 si è generata un’ipotesi di alternativa che poi è evoluta in un certo modo, ha preteso leggi, ha costruito regolamenti, ha aperto dei servizi. Il problema attuale è non schiacciarsi su ciò che hai generato. Gli orientali dicevano che la pianta non mangia il frutto, anzi la pianta è contenta se gli altri mangiano il suo frutto.

E, in tutto questo, com'è il divario tra giovani e meno giovani? Nella tua famiglia, per esempio.
Con i miei figli biologici e le persone giovani ospitate in comunità abbiamo sempre dei bei dibattiti. Io credo che la vera sfida sia quella della libertà: nessuno fa le cose perché costretto. Credo molto in quella che è la testimonianza dell’esperienza, credo nell'importanza di fare le cose con loro. In questo periodo di quarantena sono stati dei maestri, mi hanno colpito positivamente. Penso che sarò salvato da loro, e saranno più saggi di me, non importa che facciano le cose del papà ma che abbiano un cuore che vada più avanti, che sia capace di maggiore comunione e comunità. Mantenendo autoironia e leggerezza che hanno ora: mi piace molto questo aspetto, perché ti tolgono la presunzione, l’orgoglio. Mi piacerebbe che le nostre organizzazioni aprissero ai ragazzi dai 17 anni ai 30 anni, ma non solo per farli lavorare per specializzarsi, quanto aprendo un consiglio di amministrazione fatto da giovani, condotti da qualcuno esperto ma che possano deliberano temi da portare in assemblea generale. Bisogna entrare nella trasformazione anche del potere, non solo dei servizi. Dobbiamo dire cose nuove sul potere, e i giovani hanno cose molto intelligenti da dire. 




Il video dell'intervista di Sguardi Resilienti a Johnny Dotti:
https://youtu.be/QlpJ8Ad7Ttg

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